gianfuffo |
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Ripropongo quest'anno una riflessione che avevo fatto nel 2014 sui re Magi e la stella di Natale. Una lettura sotto l'albero! Con la promessa di andare a vedere (finalmente dopo 22 anni che risiedo a Padova...) l'originale della cometa di Giotto nella Cappella degli Scrovegni!
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Oggi c'e' grande festa a Monaco, in onore del santo patrono di Monaco e Frisinga, San Corbiniano (in tedesco Korbinian). Britannorum genere ortus, cioe' di origini britanniche (o irlandesi), la leggenda narra che Corbiniano, intorno all'anno 710, durante un viaggio che aveva intrapreso da Frisinga verso Roma per visitare, come molti altri pellegrini del tempo, la Basilica di San Pietro, al ritorno verso la Germania, in un passo alpino un orso aggredi' e sbrano' il cavallo su cui viaggiava Corbiniano. Il santo ammansi' e sgrido' l'orso per quello che aveva fatto, e l'animale, docile come un asinello, riporto' i bagagli di Corbiniano fino a Frisinga. L'orsacchiotto con il bagaglio sul dorso compare nello stemma della citta' di Frisinga e anche sullo stemma di papa Ratzinger, Benedetto XVI. Oggi la Chiesa festeggia San Brendano (o Brandano), Brandon in inglese, un santo irlandese protagonista di un romanzo antichissimo, del IX-X secolo: il celebre viaggio (o navigazione) di San Brendano (Navigatio Sancti Brandani). Prototipo dei romanzi di avventure, e a sua volta debitore all'Odissea, all'Eneide e ai viaggi fantastici di Simbad il marinaio, di origine persiana, racconta del viaggio immaginario fatto dal Santo assieme a 60 compagni nell'oceano Atlantico alla ricerca del mitico Tir-na-Nog, la terra dell'eterna giovinezza. Forse testimonianza storica di antichi viaggi di Irlandesi in America, frammista a leggende popolari irlandesi, all'agiografia e alle reminiscenze classiche di un anonimo monaco irlandese, la storia mi ha sempre affascinato, anche perché in questo periodo di maggio ho spesso cominciato progetti nuovi, in qualche modo imitando il Santo che si era avventurato in un oceano ignoto. Inoltre mi ricorda l'Irlanda, paese bellissimo che ho sempre amato a partire dal primo viaggio in bici in giro per l'isola assieme al mio amico Antonio, nel 1995 (poi replicato nel 2003).
Recentemente la studiosa medievalista Elena Percivaldi ne ha curato la traduzione dall'originale latino (con testo a fronte) per l'editore Il Cerchio, con prefazione di Franco Cardini. Il libro si intitola La navigazione di San Brandano, e ne ho fatto subito un ordine sul sito www.ibs.it. Se oggi, nella festa di San Marco, fate un giro a Venezia, e vi trovate davanti alla celeberrima basilica, soffermatevi davanti al mosaico posto sopra il primo portale a sinistra, che è l'unico sopravvisuto degli originali del XII-XIII secolo: rappresenta la traslazione del corpo di San Marco nella Basilica, come recita l'iscrizione: Collocat hunc dignis plebs laudibus et colit hymnis + ut Venetos semper servet ab hoste suos che tradotto suona più o meno come: Il popolo colloca (nella Basilica) costui (=San Marco) tra degne lodi e canta inni + perché difenda sempre i suoi Veneti dai nemici È una delle prime testimonianze della protezione implorata da San Marco verso i "suoi" Veneti, associazione recentemente recuperata anche in ambito politico, con l'uso che è stato fatto dalla Lega del "gonfalòn" con il Leone di San Marco. Nei secoli, questa associazione è diventata un "universo mitico costruito dalla Serenissima in metà del Mediterraneo", come dice Valerio Massimo Manfredi alla fine del suo bellissimo libro la Tomba di Alessandro (Mondadori 2009). C'è però anche un altro particolare nel mosaico: San Marco è rappresentato a corpo intero, dentro un qualcosa che assomiglia molto a un sarcofago, come se fosse avvolto in bende, cioé come una mummia. Questa osservazione ha indotto uno studioso molto serio, seppure non specialista della materia, Andrew Chugg, che nell'urna di San Marco nell'omonima basilica a Venezia, non riposino le ossa del Santo, ma una mummia proveniente dalla necropoli dei Tolomei, ad Alessandria d'Egitto. Questa ipotesi viene riportata da Manfredi nelle pagine 166-172 del suo libro già citato. La ricerca di Chugg muove dalle fonti antiche che testimoniano come San Marco fosse il fondatore della Chiesa di Alessandria e che già alla fine del IV secolo le stesse fonti storiche rirpotano di pellegrinaggi alla tomba del Santo, ad Alessandria. Secondo la leggenda, furono due mercanti veneziani, Buono di Malamocco e Rustico di Torcello, a trafugare il corpo del Santo dalla chiesa di San Marco ad Alessandria d'Egitto, fino a Venezia, agli inizi del IX secolo: lo avrebbero fatto perché il clero locale era molto preoccupato del fatto che i musulmani stavano depredando la chiesa di alcuni marmi per costruire un altro edificio. Chugg procede oltre, verificando che le testimonianze iconografiche e cartografiche collocano la chiesa di San Marco ad Alessandria vicino alla porta orientale della città islamica, cioé nelle vicinanze, o addirittura coincidente, col terreno dell'antica necropoli dei Tolomei, i faraoni greci che dominarono l'Egitto: da qui, unendo le testimonianze dei mosaici di San Marco, che rappresentano il santo come un corpo intero e incorrotto simile a una mummia, con la collocazione geografica dell'antica chiesa di San Marco ad Alessandria, deduce che al posto del santo, dentro l'urna di San Marco a Venezia ci possa essere proprio una mummia di un sovrano tolemaico, se non proprio addirittura il corpo stesso di Alessandro Magno. Chugg ha addirittura proposto di sottoporre a esami scientifici i resti attribuiti a San Marco, non diversamente da come fatto sulla Sindone: Valerio Massimo Manfredi chiosa però che l'assai lontana probabilità di scoprire che si trattava di Alessandro Magno invece dell'evangelista Marco dovrebbe essere pagata con la dissoluzione di un intero universo mitico, quello costruito dalla Serenissima in metà del Mediterraneo. Senza contare che, se effettivamente nei disordini che nel IV secolo seguirono la sostituzione dei riti pagani con la nuova religione Cristiana (di cui abbiamo parlato già in questo blog nel post su Ipazia), una mummia della necropoli svolse il ruolo del corpo del Santo evangelista, invece del mitico fondatore della città di Alessandria, potrebbe essersi trattato di un qualunque sovrano della dinastia dei Tolomei: vi immaginate se al posto di San Marco nella Basilica si trovasse la mummia di Cleopatra?
La quarta domenica di Pasqua, o Dominica Tertia post Pascha, era chiamata nella vecchia liturgia pre-conciliare Dominica Jubilate, dall'introitus della Messa che recitava Jubilate Deo omnis terra. Lo stesso nome porta la domenica nella liturgia luterana. Johann Sebastian Bach compose ben tre cantate per questa occasione (BWV 12, 103, 146). La più antica di queste, che risale al periodo in cui Bach lavorava alla corte di Weimar, è proprio la BWV 12, dall'allegro titolo Weinen, Klagen, Sorgen, Zagen ("Piangere, lamentarsi, temere, preoccuparsi"). Il titolo della Cantata fa riferimento alla lettura prevista nella liturgia luterana per questa domenica, cioé il capitolo 16 del Vangelo di Giovanni, dove si legge Così anche voi, ora, siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà. Dopo una bellissima sinfonia, il coro introduttivo ci ricorda subito l'attitudine di Bach a riutilizzare brani giovanili in composizioni più tarde: è infatti rielaborato (e raccorciato) nella Messa in Si Minore come il celeberrimo Crucifixus (il testo originale è proprio Weinen, Klagen, Sorgen, Zagen). Ma è il corale finale a destare la meraviglia: dopo brani di tono cupo, coerente con il titolo della Cantata, compare un corale stupendo, Was Gott tut, das ist wohlgetan ("quello che fa Dio, è sempre ben fatto"). L'armonizzazione di Bach fa risplendere il motivo originale, scritto da Severus Gastorius, cantor a Jena, nel 1675, sul testo del suo amico, Samuel Rodigast, che aveva scritto i versi esplicitamente per l'amico Severus, che quell'anno era ammalato. Qui di seguito potete scaricare lo spartito del Corale:
Siamo quasi in Settimana Santa, e un ascolto "di passione" è d'obbligo. Questa volta lascio le monumentali composizioni di Bach sul tema, e scelgo qualcosa di molto più intimo e nascosto: il magnifico Stabat Mater "à 10 voci" di Scarlatti (figlio, Domenico). Il testo è la celeberrima sequenza attribuita a Jacopone da Todi, che descrive il dolore della Vergine Maria ai piedi della croce con versi accorati e commossi, ed esprime la volontà del fedele di accompagnare col suo proprio dolore la Madonna e Cristo al Calvario. Da ragazzo ovviamente ti piace di più lo Stabat Mater di Pergolesi, anche quello scritto dal grande musicista quando era ragazzo poco più che ventenne; poi si cresce e si ammira l'intimità concentrata, sintetica e raccolta di questo splendido pezzo (sono venti minuti e poco più di musica), senza orchestra, solo solisti a cappella, accompagnati dal basso continuo, scritto da Domenico Scarlatti a Roma quando era trentenne. Il versetto "Fac me vere tecum flere / crucifixo condolere / donec ego vixero" è il pezzo di musica che io conserverei in eterno, se mi dovessero dire di salvare un solo pezzo di musica di tutta quella che è stata scritta dalle origini fino a oggi.
Ma tra i ribelli c'erano anche il duca di Carinzia e marchese di Verona Bertoldo, e il conte del Friuli, Ludovico: in questo modo erano sbarrati i passi che conducevano dall'Italia alla Germania, in particolar modo il Brennero. Ma il patriarca di Aquileia, Sigeardo di Beilstein, rimase fedele a Enrico, garantendo la comunicazione attraverso i valichi delle Alpi Carniche. Sigeardo (Sieghard) era un nobile bavarese, figlio di Sigeardo VII, conte di Chiemgau, una pittoresca regione dell'Alta Baviera ai confini con l'attuale Austria. Enrico volle premiare il Patriarca per la sua fedeltà, e contemporaneamente punire il Conte Ludovico e il Duca Bertoldo, e con un diploma, datato a Pavia 3 aprile 1077, investì Sigeardo della Contea del Friuli con privilegi ducali: Comitatum Foroiulii omneque beneficium quod Ludowicus comes habebat in eodem comitatu, cum omnibus ad regalia et ad ducatum pertinentibus, hoc est placitis, collectis, fodro [=diritto di requisire vettovaglie per l'esercito], districtionibus universis. E' l'atto di nascita del Friuli storico, la cosiddetta "Patria del Friuli". Il patriarca Sigeardo non potè godere a lungo di questi privilegi, perché il 12 agosto dello stesso anno morì di improvvisa malattia a Ulma, dove si era recato per difendere l'imperatore Enrico IV di fronte ai principi tedeschi*. *Questo piccolo racconto storico è basato sul trattato di Gian Carlo Menis, Storia del Friuli, Società Filologica Friulana (Udine, 1969), pp. 193-195.
X.6 L'ottavo consolato di Costanzo assieme a Giuliano corrisponde proprio all'anno 356: ancora nel IV secolo gli anni si contavano con i nomi dei consoli, come nella piu' autentica tradizione romana.
Questa tradizione continuera' indisturbata fino al 541, quando Giustiniano, in uno dei tanti atti che nel VI secolo danno veramente inizio al Medioevo, abolisce il consolato: l'ultimo console fu Anicio Fausto Basilio, nel 541 appunto.
libro dei morti, come osserva Mario Martinis nel suo libro sulle tradizioni popolari friulane, Il grande lunario del Friuli, il dio Thot dalla testa di ibis assiste il defunto, come un avvocato difensore, in una fase cruciale del suo viaggio nell'oltretomba, cioe' la pesatura dell'anima (psicostasia): se l'anima del defunto, simboleggiata dal cuore, e' piu' leggera della piuma di Maat, la dea della giustizia, allora il defunto verra' giudicato giusto, e ammesso al cospetto del dio Osiride nel regno dei morti. La bilancia di San Michele, che e' ancora oggi (assieme alla spada) il simbolo della giustizia nei tribunali, rimanda a questo ruolo fondamentale, richiamato da uno dei versetti dell'antica liturgia latina della messa da morto ("Requiem"): Sed signifer sanctus Michael repraesentet eas in lucem sanctam cioe', "il Santo Michele portatore di vessillo (la spada fiammeggiante) le difenda (=le anime dei morti) presso la luce eterna", dove il "difendere" e' inteso proprio come l'attivita' dell'avvocato difensore. Bene, ora che cosa c'entra tutto questo con la data della festa di San Michele? Nell'equinozio di autunno il sole attraversa la linea dell'equatore celeste, e si immerge nell'emisfero meridionale, che per noi abitanti dell'emisfero boreale significa l'inizio della stagione del buio: ecco allora l'arcangelo Michele che, come con le anime dei defunti, "accompagna" il Sole nel suo viaggio nell'oltretomba con la sua spada luminosa, verso la luce dell'anno nuovo. Il secondo simbolo con cui viene rappresentato il Santo, la bilancia, oltre a essere il simbolo della giustizia, e' per singolare coincidenza anche il segno zodiacale in cui il Sole attraversa l'equatore celeste nel cosiddetto "punto Omega" o punto Ω: si tratta appunto del segno della Bilancia. Oggi a causa della precessione degli equinozi, il punto Ω si trova nella costellazione della Vergine, ma per tradizione il segno zodiacale rimane quello della Bilancia. Lo stesso significato del passaggio dalla stagione della luce a quella del buio ha la tradizione austriaca del "Lichtbratl" (letteralmente, l'arrosto della luce): in molti paesi dell'Austria e del sud della Germania, a San Michele i capimastro usavano offrire un arrosto di maiale ai propri dipendenti per indicare che una gran parte dei lavori manuali da adesso in poi si sarebbe dovuta eseguire a lume di candela. La stessa cosa nel detto friulano: Sant Michêl al impìe el ferâl e Sant Josèf lu distude, cioe' San Michele (29/9) accende la lampada e San Giuseppe (19/3) la spegne, chiara indicazione della durata dei "mesi del buio".
De aequinoctiis, quod octavo Calendarum Aprilium, et octavo Calendarum Octobrium, et de solstitiis, quod octavo Calendarum Juliarum, et octavo Calendarum Januariarum die sint notanda, multorum late el sapientium saeculi, et Christianorum sententia claret. Questo brano e' tratto dall'incipit del capitolo 30 del De Temporum Ratione del Venerabile Beda: in esso il monaco, studioso e "scienziato" medievale chiarisce che l'autorita' dei filosofi laici, e cristiani, dell'antichita' stabilisce che solstizi ed equinozi si debbano osservare 8 giorni prima delle calende di aprile, ottobre, luglio e gennaio. Cioe', 25 marzo, 24 giugno, 24 settembre e 25 dicembre. Sono le date tradizionali di equinozi e solstizi nel calendario di Giulio Cesare, poi parzialmente ricalcolati ai tempi del Concilio di Nicea, che stabili' che l'equinozio di primavera fosse osservato il 21 marzo (come facciamo noi ora nel calendario gregoriano).
Queste antiche date sopravvivono ancora in alcune feste religiose: l'Annunciazione il 25 marzo, San Giovanni Battista il 24 giugno, e, non da ultimo, il Natale il 25 dicembre. Quindi, secondo gli antichi Romani, l'equinozio d'autunno era oggi. |
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